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Ironia nella pubblicita

L’ironia in pubblicità, intervista ad Annamaria Testa

Fateci ridere, per favore. La situazione economica e quella internazionale sono quelle che sono. Ma, almeno nel salotto di casa nostra, desideriamo un po’ di leggerezza. Così in tv impazzano i programmi di intrattenimento ed evasione, i libri dei comici sono i best-seller del momento e persino l’informazione “seria” ha bisogno delle Iene. Far ridere è un’opera di bene: tanto che Aldo, Giovanni e Giacomo vengono premiati dal presidente della Repubblica.

La pubblicità lo ha capito da un pezzo: l’ironia funziona. Niente fa vendere meglio di un moto di simpatia. E allora ridiamo: perché la sofisticata diva Gwyneth Paltrow viene scambiata per una cameriera. O magari per i virili eroi del pallone di abbarbicati come bimbi sulle spalle dei tifosi. Ci piace immaginare il paradiso come una convention di buontemponi, dove Paolo Bonolis può scherzare perfino coi santi. Si ride nella cucina di casa, perché anche un macho come Diego Abatantuono seduce gli ospiti con mestolo e grembiule. Si sorride al volante, per la Banana Butterfly o l’Agente OOFette sui manifesti stradali. E per Alex Del Piero, alla radio, infastidito da passerotti e bambini impertinenti per aver scelto l’acqua Uliveto.

Scrive Annamaria Testa nel libro “La parola immaginata”: «In ogni periodo l’atteggiamento del pubblico e il contesto sociale, economico e culturale influiscono sulla qualità dell’approccio pubblicitario. Che non è altro che una amplificazione di desideri, stati d’animo e aspettative della collettività». Oggi è dunque la risata la nostra massima aspirazione? Lo abbiamo chiesto proprio a lei: considerata uno dei più brillanti talenti creativi italiani, milanese, Annamaria Testa lavora in pubblicità dagli anni Settanta. Ha realizzato molte campagne innovative e ironiche, con slogan che sono entrati nel linguaggio, dalla Golia che «sfrizzola il velopendulo» al golfino tanto morbido da essere «nuovo o lavato con Perlana». Oggi è consulente per la comunicazione di alcune aziende italiane, insegna Tecniche della comunicazione creativa presso l’Università Iulm di Milano e pubblica libri: tra i più recenti, “Farsi capire” per Rizzoli, “La pubblicità” per Il Mulino, e “Le vie del senso”, per l’editore Carocci.

«L’ironia alleggerisce la vita. È una scintilla d’intelligenza. E senza dubbio produce numerosi effetti positivi. Ma non è certo una scoperta della pubblicità attuale», chiarisce subito. Già Cicerone sosteneva che un oratore che usa in modo efficace il registro comico crea un rapporto di sintonia con l’uditorio: in parte perché il buonumore procura benevolenza verso chi lo ha suscitato, in parte perché si ammira la sua acutezza. «L’ironia è una figura retorica molto precisa», continua Testa. «Consiste nel dire l’opposto di ciò che si vuole intendere, scatenando un effetto paradossale. Il sarcasmo è ironia esasperata. Entrambi assegnano ai destinatari del messaggio un grande potere: quello di capire ciò che io intendo realmente dire».

Insomma, signora Testa: ci sta dicendo che l’ironia presuppone l’intelligenza di chi ascolta? E che quindi, al contrario di quello che si potrebbe pensare superficialmente, non è uno strumento per catturare simpatie a buon mercato? «Anzi: ironia e sarcasmo sono due armi affilate, da usarsi con cautela. Perché per chi ascolta è molto difficile ribattere, se non è d’accordo. E questo può risultare parecchio irritante. Altro che simpatico».

L’umorismo, dunque, è una cosa seria. «L’ironia, come la seduzione, è magia, frutto di alchimie sottili». D’accordo: ma un signore che scivola su una buccia di banana ci fa ridere sempre, no? «Dipende», risponde Testa. «Dal signore: è giovane e sano o è anziano e malfermo? Ma soprattutto dallo sguardo di chi assiste allo spettacolo». La pubblicità, comunque, ha sempre privilegiato l’ironia come linguaggio espressivo: dalla comicità all’italiana dei candidi Caroselli degli anni Sessanta allo humour più anglossassone degli anni Settanta, dalla felicità tutta rampantismo e buoni sentimenti degli anni Ottanta alle citazioni grottesche e provocatorie di oggi. «Certo, niente di nuovo» , ribadisce Annamaria Testa. «Basti pensare alle meravigliose produzioni dello Studio Armando Testa (nessuna parentela, ndr), come Carmencita e Caballero costruiti su deliziosi registri ironici capaci di farci sorridere ancora oggi» .

Inutile girarci intorno. L’ironia fa vendere perché ci dispone in uno stato di ottimistica apertura nei confronti del prodotto, rompendo eventuali resistenze. Far ridere è coinvolgente come far sognare: riduce la tensione e l’aggressività, dà sollievo. «Tutto ciò che fa sorridere sospende per un attimo le nostre barriere razionali» , spiega Annamaria Testa. «E suscita in noi un senso di gratitudine».

A patto che il sorriso non vada a scapito della comunicazione sul prodotto» . Un esempio: lo spot con Sean Connery, dove al celebre attore il poliziotto sbarrava l’accesso come a un qualsiasi sconosciuto. «Secondo me lo spot funzionava poco» , afferma Testa. «Era carino, divertente, ma quanti ricordano il prodotto pubblicizzato?» Si trattava di Ras assicurazioni ‘Costruttori di certezze’. «Nessuno di noi potrà mai avere le certezze che Sean Connery si è costruito grazie alla notorietà. E sostenere che ci basti una polizza, mi pare un po’ troppo» . L’ironia, invece, è assoluta e straordinaria nello spot del Martini Spumante. Nell’episodio precedente, George Clooney si prendeva una porta in faccia e veniva cacciato dalla festa. Grande soddisfazione per i maschietti, ma ovvia ironia per le femminucce: quale donna avrebbe il coraggio chiudere la porta in faccia a Clooney? Oggi il divo hollywoodiano si prende la rivincita: porta via le bottiglie e decreta il «No party» dei vicini fracassoni. Il messaggio è chiaro: desiderabile il divo (o imitabile, per gli uomini), desiderabile il prodotto reclamizzato. Che non si dimentica.

«L’ironia è una modalità di comunicazione più anglosassone, perché, in un mondo molto formale e un tempo molto conformista, permette di dire senza dire. I popoli mediterranei, più sfacciati, sono più portati al comico. Ma oggi gran parte della produzione pubblicitaria italiana l’ironia la vede da lontano. Le aziende tendono a prendere i loro prodotti molto sul serio, senza comprendere quanto più efficace possa essere un messaggio divertente».

Non dimentichiamo che l’ humour è anche un mezzo di sopravvivenza. «L’autoironia è una straordinaria arma di difesa: esorcizza la morte, la distruzione, la stupidità. Nei momenti più duri proprio il popolo ebreo ha inventato alcune storielle spaventose e irresistibili sugli ebrei. Nei regimi totalitari le barzellette sono un mezzo di resistenza, di dissacrazione del potere. Il riso è sempre vincente: Totti che è riuscito a tramutare gli sfottò su di lui in un best-seller. E lo stesso ha fatto l’Arma, che ha raccolto le barzellette sui carabinieri in un volume regalato come strenna natalizia. Brillantissime operazioni di marketing auto-promozionale» .
Quando i marchi riescono a sorridere di se stessi, i risultati non mancano: pensiamo al «dottor Scotti» del riso, bonariamente apostrofato dall’omonimo comico Gerry. O al manager della Bistefani trasformato in Babbo Natale perché i suoi biscotti sono «troppo buoni» . O, ancora, a Giovanni Rana invitato in balera dalla massaia indispettita dalla qualità della pasta sfoglia. Il personaggio - e quindi il prodotto - viene sì preso in giro, ma risulta positivo, simpatico, accattivante. Efficacemente persuasivo.

Conta molto anche la sensibilità del pubblico. «Ridere è anche un fatto di sensibilità condivisa. E il confine tra comicità e grossolanità può essere molto sottile» , concorda Annamaria Testa. Di recente ci sono state campagne, con affissioni e spot, molto criticate e perfino censurate: il ragazzo con gli enormi capezzoli che reclamizzava un chewingum, gli spermatozoi all’inseguimento di una ragazza per le strade, i sederi che guidano l’auto. Ma è lecito attirare l’attenzione costi quel che costi? «La provocazione è una scorciatoia e personalmente ne diffido» , afferma Testa. «Farsi notare è facile: basta uscire nudi per strada. Ma la pubblicità vuole contenere un’informazione forte, che si traduce in un invito all’acquisto. La provocazione è un rumore che sovrasta l’informazione. E quindi va a discapito del prodotto stesso: può attirare antipatia, il prodotto viene dimenticato o addirittura considerato con ostilità» . Se ciò che si vuole è promuovere l’autorevolezza del marchio e indurre fiducia nel consumatore, meglio pensarci due volte prima di provocare. «Prendiamo la comunicazione dell’università di Macerata. Sopra alla foto di un ragazzo che fa il gesto dell’ombrello c’è la scritta ’La buona educazione’. Non mi scandalizza, ma mi intristisce un po’ il fatto che un’università non trovi un’immagine migliore per promuoversi. La comunicazione vorrebbe essere ironica, liberatoria. Ma se subito dopo averla letta si pensa alla situazione generale dell’università italiana, che è tutt’altro che allegra, c’è il rischio che il messaggio finale sia ’l’ateneo di Macerata è l’esempio emblematico di come la cattiva educazione affligga le nostre università. Non era più semplice pubblicizzare i corsi?»

Altro elemento fondamentale per il successo di una pubblicità divertente: il contesto culturale. Il comico è legato alle situazioni che lo spettatore può comprendere. Non deve essere spiegato, altrimenti perde la sua carica. Spesso è fatto di allusioni che possono essere capite solo nel presente. Per questo la comicità “scade” in fretta: chi riderebbe, oggi, del Paninaro anni Ottanta di Drive In?
Ancora: secondo i dati della ricerca internazionale Ials-Sials sulle competenze alfabetiche degli adulti nei paesi dell’Ocse del 2001, il 34,6 per cento degli italiani è al limite dell’analfabetismo e il 30,9 per cento possiede un patrimonio alfabetico limitato. Perciò, nei 30 o 15 secondi di uno spot, o nei pochi istanti che l’occhio dedica a un manifesto, è meglio affidarsi al fascino di un’immagine, all’emozione della musica, alla simpatia di una gag.

Ma in quanti avranno capito il celeberrimo slogan di Annamaria Testa “Golia sfrizzola il velopendulo”? «Ah, sono certa che moltissimi non l’hanno capito. Anzi, qualcuno si sarà chiesto perché i pubblicitari vengono pagati per scrivere simili stupidate. Ma l’importante è che il messaggio sia compreso dalle persone alle quali è rivolto, il preciso target di consumatori che potrebbero comprare quel prodotto» .

Si ride solo se si conosce. E meglio si conosce, tanto più si ride. «Esatto. Ho appena finito un libro delizioso, «Non ho problemi di comunicazione» , di Walter Fontana» , spiega Testa. «Racconta le avventure tragicomiche di un copywriter alle prese con una famiglia di ottusi commercianti dell’hinterland milanese. Mentre leggevo sono scoppiata a ridere più volte: credo che, oltre che dalla bravura dell’autore, sia dipeso dal fatto che il libro narra di situazioni che conosco molto da vicino» . C’è un interessante corollario: «Quanto più è densa, spessa, generosa la cultura di una società, tanto più è facile che ci siano occasioni di riso. E uno dei tratti caratteristici di molte personalità creative, nei campi più diversi, da Einstein a Hitchock, è proprio uno spiccato senso dell’umorismo. Che è indice di elasticità mentale, capacità di stabilire nessi e consequenze, ma anche di ribaltare punti di vista» .

La globalizzazione, che fa sì che le campagne pubblicitarie possano essere viste in tutto il mondo, ha influenzato l’uso della comicità? «I meccanismi che scatenano il riso sono universali» , risponde Annamaria Testa. «Ma il reagente, cioè le situazioni, i personaggi, gli usi, e quindi anche i linguaggi pubblicitari cambiano da una cultura all’altra. Conosce la barzelletta di Bush, Beckham, il papa e un bambino sull’aereo che sta precipitando e con solo tre paracadute? Bush ne prende uno sostenendo che il mondo non può fare a meno di un leader, Beckham un altro perché gli sportivi non possono fare a meno di lui, mentre il papa decide di rinunciare al suo paracadute in favore del bambino. Che però lo rassicura: ’Non c’e problema, santità. Bush ha preso il mio zainetto’. Esilarante, eppure basata su un meccanismo elementare: un paracadute assomiglia davvero a uno zaino, mentre è surreale che Bush non veda la differenza. Ma immagini di non sapere che cos’è un paracadute. O di ignorare chi sia Bush. La barzelletta non funzionerebbe. Questo, in parte, spiega perché gli spot italiani raramente vincono premi nei festival europei: la comicità italiana è difficilmente comprensibile da una platea internazionale» .

Ma ciò non vale solo per la pubblicità: anche chi traduce in italiano romanzi comici dall’inglese fatica non poco per trovare situazioni analoghe che rendano comprensibile una battuta. «D’altra parte, il successo di film come ’Il mio grosso grasso matrimonio greco’ o di ’My beautiful laundrette’, scritto da uno sceneggiatore pakistano, o, ancora, di Monsoon Wedding, della regista indiana Mira Nair dimostrano che, mescolando registri e culture, stiamo anche cominciando a condividere il senso del comico e dell’ironia: questa mi pare una gran bella notizia. Quando tutti sapremo ridere delle stesse cose, forse ci faremo anche meno la guerra».

Mariateresa Truncellito
da «D’U» (magazine Volkswagen), gennaio 2005


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